
Il mercato cambia costantemente e nei suoi cambiamenti è veloce, non aspetta nessuno. La bontà e l’indulgenza sono sentimenti che non conosce e chi resta indietro spesso non riesce più a recuperare. Pietà e democrazia sono concetti che non gli appartengono. L’unico imperativo, dogmatico, categorico, costante è il profitto e la massimizzazione dei benefici per le élite che lo governano.
Élite composte da una stretta cerchia di potenti uomini d’affari, sui quali le teorie complottistiche si sono sbizzarrite negli ultimi anni, ma i fatti parlano chiaro, il 99% della ricchezza mondiale è nelle mani dell’1% della popolazione o giù di li, e ciò significa che questa élite esiste e per tramite proprio del mercato, scrive le leggi, crea le regole, trova le soluzioni ad hoc alle crisi cicliche, che essa stessa ha innescato e, se necessario, nel nome del profitto depone anche i governi.
E sì, è successo anche in Italia purtroppo.
La democrazia diceva Churchill è la peggior forma di governo, al netto delle alternative presenti e, ad oggi, non siamo ancora in grado di smentirlo, anche se forse qualcuno vedrebbe di buon occhio una dittatura illuminata, un po’ come quella che ci concede di andar a far una passeggiata fuori comune.
Ogni riferimento non è puramente casuale.
Tuttavia, come spiegava con grande lungimiranza Le Bon, uno psicologo francese nel 1895, la democrazia tenderà sempre a presentare due seri pericoli, quello degli sprechi finanziari, che non serve nemmeno commentare da quanto è palese e, quello di una restrizione progressiva delle libertà individuali e, non si tratta solo del caso di questa pandemia, dove abbiamo toccato l’apice delle restrizioni, ma basta guardare alla normativa italiana su eventi e manifestazioni per avere un valido esempio precedente al Covid-19, di come le libertà siano state mano a mano ristrette, tramite una moltitudine di leggi, talvolta completamente dissennate.
Di tutto ciò, spesso noi non ce ne accorgiamo affatto, poiché viviamo in una società iper-individualista, dove al centro di ogni attività c’è il singolo, inteso come homo oeconomicus, cioè l’uomo lavoratore; consumatore e consumato, che ha come obiettivo finale della sua esistenza quello di accrescere la ricchezza materiale e di soddisfare i propri bisogni, che coincidono con quelli del mercato, anche a costo di venir consumato nel suo io interiore.
L’iper-individualismo è lo specchio sociale del mercato, è l’uomo che corre verso i consumi, che ha sempre fretta, che troppo spesso mette il lavoro (ed i profitti) prima di qualsiasi cosa ed il singolo è la sua forza motrice, perché più facilmente condizionabile e direzionabile.
Se ci pensiamo, ognuno di noi cerca di trarre il massimo beneficio da qualsiasi situazione nella quale si trova, sia essa lavorativa, puntando, ai migliori stipendi e alle migliori posizioni, così come il mercato e le sue leggi ci hanno dogmaticamente insegnato, sia essa sentimentale, dove non è un caso, che le relazioni durino sempre meno, quasi che anche le persone siano usa e getta, proprio come una qualsiasi merce. Ma più in generale questa tendenza utilitaristica ed individualistica si ravvisa in ogni aspetto della vita, dall’amicizia per interesse fino ai rapporti commerciali basati sempre più sul prezzo basso e sulla qualità scadente e sempre meno sulla fiducia e sulla competenza.
Questo è lo specchio della società e del mercato odierno, ovviamente non tutti gli uomini sono così, ma parlando in termini generali non si possono ignorare queste evidenze.
Il mercato, infatti, nel corso degli ultimi quarant’anni ha permesso l’accesso ai consumi di base a chiunque, garantendo così la sopravvivenza di una grande massa di poveri relativi e cioè, persone che pur avendo il sostentamento primario di base, non hanno accesso a cibi di qualità, ad un’igiene adeguato, a cure mediche specializzate e ad un’istruzione valida; insomma sono quei lavoratori/consumatori di cui il mercato stesso ha bisogno per sopravvivere.
Senza di essi, infatti, mancherebbero quelle orde di manodopera a basso salario, che permettono di abbattere i costi di produzione, di de-localizzare nei Paesi in via di sviluppo quando conviene, oppure di distruggere le conquiste sociali e sindacali dei lavoratori occidentali, ottenute con fatica nella seconda metà del Novecento.
Tant’è che anche in Europa e nel Nord America, la massa di poveri relativi sta aumentando a dismisura e la disoccupazione crescente, altro non è che il prezzo da pagare per mantenere alti i profitti e i benefici delle élite che dirigono il mercato.
Rimane però viva nella fantasia di ognuno di noi la possibilità del riscatto sociale, del self made man, di colui che, partito dal nulla si è affermato e si è fatto ricco e, con questa speranza si continua nella ricerca del benessere e della ricchezza, andando così a fare il gioco del mercato.
Qualcuno ci riesce, se ne fa un film e il sogno continua a ripetersi nell’immaginazione collettiva.
Ultimamente, infatti, vediamo la ricchezza solo come il possesso di beni materiali, sia ben chiaro in parte è vero, così come è vero che dal lavoro non si deve mai prescindere, anche perché la realizzazione personale e la creazione di una propria identità personale e sociale, derivano in parte proprio dal lavoro, tuttavia da esso non dobbiamo essere sopraffatti.
Inseguendo costantemente i profitti e la ricchezza materiale stiamo dimenticando di coltivare l’io interiore, le passioni, i sentimenti, la cultura e il dibattito politico e, così facendo, potremo anche far progredire le tecnologie all’infinito, ma avvieremo inesorabilmente la società occidentale verso la decadenza morale.
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