Nonostante da più parti si voglia negare questa evidenza, o celarla al grande pubblico, negli ultimi trent’anni all’interno delle economie occidentali avanzate è aumentata la disuguaglianza economica tra ricchi e poveri.
Se fino alla fine degli anni Settanta il 10% degli americani più ricchi deteneva il 50% della ricchezza nazionale, oggi lo stesso 10% detiene ben il 70% di tale ricchezza, e di questi, l’1% dei più ricchi, da solo, ne detiene il 32%.
Una situazione speculare si sta verificando in Italia, dove l’1% dei più ricchi detiene il 25% della ricchezza nazionale, ed il primo 20% dei ricchi ne detiene il 70% del totale, in un processo che prende il nome di terzomondizzazione delle economie avanzate.
Per intenderci la nostra società, si sta muovendo verso una realtà, dove i ricchi vivranno in quartieri lussuosi ben delimitati, difesi da muri con il filo spinato e forniti di scuole e servizi eccellenti. Mentre al di fuori di questi luoghi, il resto del popolo vivrà invece, nell’indigenza e nella povertà, proprio come avviene già in alcuni paesi del terzo mondo.
Certo, per fortuna in Italia non siamo ancora a questo livello, tuttavia continuando in questa direzione economica e politica, il rischio di arrivarci presto è elevato.
Negli Usa invece, sono già a metà strada e le proteste di questi giorni ne sono la dimostrazione, perché i saccheggi e le rapine contro i negozi di lusso e le boutique, non centrano nulla con i diritti civili e la libertà, ma sono l’espressione di un disagio sociale crescente e di una povertà diffusa sempre più preoccupante, che vuole la sua rivincita contro la ricchezza.
Il ceto medio sia negli Usa che in Italia, sta lentamente scomparendo, lasciando il posto a un ceto basso e povero sempre più ampio, mentre i super ricchi accrescono il loro potere e la loro ricchezza senza alcun limite.
Già adesso, infatti, chi nasce in una famiglia ricca ha assicurato l’accesso alle migliori scuole e ai migliori servizi e, in questo modo, ha possibilità ed opportunità maggiori rispetto a chi nasce in una famiglia normale o in una povera.
Il mondo del lavoro procede di pari passo; con i rampolli delle grandi famiglie che hanno posti assicurati e redditizi, mentre per gli altri l’incertezza economica e l’insicurezza lavorativa stanno diventano una triste costante.
La disuguaglianza economica porta quindi ad una discriminazione sistematica basata sul denaro sia nell’istruzione che nel lavoro.
In Italia, più 6 milioni di persone, cioè il 10% dei nostri concittadini vive sotto la soglia di povertà, ed è calcolato che più di un’italiano su due viva, invece, con un reddito medio netto di 1500 euro mensili, il quale consente la sopravvivenza, ma non la programmazione del futuro, soprattutto per i giovani, in assenza di patrimoni familiari preesistenti.
Messa giù in questo modo la prospettiva futura sembra terrificante, tuttavia nella storia recente tra il 1950 e il 1980, abbiamo assistito ad un fenomeno contrario; cioè alla diminuzione della disuguaglianza e all’aumento medio dei redditi di tutte le classi, avvenuta attraverso ricette economiche opposte a quelle attuali.
I governi di allora intervenivano in economia con politiche a favore dell’istruzione pubblica per tutti, impedivano la svendita delle proprie infrastrutture (in questi giorni abbiamo (s)venduto la Brebemi ad un Fondo Australiano, nel silenzio tombale dell’informazione), si prodigavano nel limitare la disoccupazione, anche a costo di aumentare un po’ l’inflazione e cercavano di formare una società più equa, dove tutti potevano guadagnare un po’ di più, creando nuova ricchezza e non redistribuendo quella presente.
I governi di allora intervenivano in economia con politiche a favore dell’istruzione pubblica per tutti, impedivano la svendita delle proprie infrastrutture (in questi giorni abbiamo (s)venduto la Brebemi ad un Fondo Australiano, nel silenzio tombale dell’informazione), si prodigavano nel limitare la disoccupazione, anche a costo di aumentare un po’ l’inflazione e cercavano di formare una società più equa, dove tutti potevano guadagnare un po’ di più, creando nuova ricchezza e non redistribuendo quella presente.
Oggi l’azione economica è contraria, perché è il mercato a dominare lo Stato ritenuto inefficiente e l’economia reale è così abbandonata a sé stessa. Non ci si cura più della disoccupazione, ma si punta soltanto a tenere bassa l’inflazione tramite la tristemente nota austerità, il che va chiaramente a favore dei creditori, nel gergo tecnico i rentiers, solitamente coloro che sono più ricchi.
Le privatizzazioni hanno giocato nuovamente a favore dei più ricchi e non dei popoli, perché è facile guadagnare se ti vendono a 500 milioni una società che vale un miliardo: sono capaci tutti. E ancora, come nel caso italiano, sanno essere tutti ricchi, privatizzando gli utili e socializzando le perdite, e sapete bene a chi e che cosa mi riferisco.
Tuttavia non è impossibile tornare a un’economia più equa e sostenibile, ma per farlo dobbiamo liberaci dell’attuale struttura finanziaria, burocratica e politica, poiché è proprio l’architettura del capitalismo finanziario a prevedere che la ricchezza dalla base della piramide si muova verso la sua punta, drenando così le risorse dei più poveri a favore dei più ricchi.
Solo riportando l’economia a misura d’uomo e al suo ruolo di scienza sociale e cioè riconoscendo che il mercato non è infallibile, che le unioni monetarie non sono per sempre e che gli investimenti devono essere fatti nell’economia reale e non nella finanza, potremo migliorare davvero le cose.
Commenti
Posta un commento